Caro E.,
voglio raccontarti una storia di rapimento, energia e condivisione. Si tratta di una storia che mi ha affascinato, che ho vissuto e che hai vissuto anche tu. Si è svolta in un piccolo paese del trevigiano, Malintrada, di poco più di 800 anime in una serata di inizio maggio uggiosa, un po’ fredda, buia. Poi ho capito dove era la luce. Una di quelle sere in cui sei ad un passo da startene sul divano, ma desisti ed esci lo stesso.
15 minuti di macchina, un parcheggio fortunato evitando campi e prati in cui si poteva rimanere impantanati visto il meteo, poi l’inizio di qualcosa che non avevo preventivato, di un tempo al di là del tempo: perfino tu non hai ceduto fino a mezzanotte.
Quel qualcosa a livello pragmatico e pratico è stata una serata di BalFolk, ma a livello emotivo è stato qualcosa di diverso. Ho incontrato l’espressione di una umanità che attraverso la danza ha incarnato innumerevoli valori difficili da trovare tutti insieme altrove. Questi valori permeavano lo spazio e investivano ogni presente. L’effetto è stato ipnotizzarmi e ipnotizzarti nella contemplazione di tale espressione di vita e umanità guidato dalla danza: non hai sbattuto ciglio, incapace di distogliere lo sguardo da quella energia. Per chi ha il coraggio di lasciarsi andare, io non ne sono capace mentre tu sei bravissimo, la danza (“spontanea”) rappresenta la più bella manifestazione di un’energia profonda e eterna. Tu sei meraviglioso nel tuo movimento spontaneo e probabilmente quello che hai incontrato quella sera era perfino troppo da gestire sia con gli occhi che con le gambe e hai preferito gli occhi. Ma sono certo che si è depositato in te qualcosa che al momento giusto sboccerà in una espressione di vita e vitalità.
Tornando alla serata a cui la mamma ci ha portato, la prima cosa che mi è balzata agli occhi è stato il tasso di sorrisi presenti in quel luogo: nessun volto corrucciato, nessuno in preda alla performance, ma persone felici di condividere uno spazio e un tempo. Uno spazio talmente pieno da non permettere individualismi o virtuosismi, ma che concedeva il “centro della pista” sempre libero, mai invaso. Quasi uno spazio sacro da rispettare, da non invadere. Simbolicamente parlando (la pista era strapiena) l’ho vita come la volontà intrinseca di questa danza di essere sempre un noi, in cui nessun io è fine a se stresso o sopra gli altri, ma ognuno contribuisce ad innalzare quella “comunità”. La competizione è esclusa a favore dell’innalzamento dell’espressione: ognuno mette il proprio io nel noi. L’occhio dell’osservatore non poteva fare altro che ballare da una persona all’altra senza mai potersi fissare su un punto di convergenza: nulla accentrava l’attenzione al di fuori del tutto. Questa è stata la grande seconda consapevolezza: balla anche chi non balla (io non ballo, nel senso letterale del termine, e non credo inizierò a farlo a breve). Ballano gli occhi insieme ai ballerini e nessun luogo è un fuori posto: balla anche chi non balla per inseguire i movimenti di una comunità eterogenea in cui le differenze diventano incredibile unità.
Terzo punto: c’erano così tanti tipi di persone diverse eppure non c’era percezione della differenza. C’era una così grande moltitudine integrata nel ballo da rendere di fatto irrilevante la differenza. Una grande aspirazione per la nostra società, rendere la diversità normale.
Si respirava un’aria di bontà e di accoglienza: un popolo dal quale nessuno è escluso. Un esempio di come non sempre tutto debba essere trasformato in una gara per coinvolgere e motivare i partecipanti.
Wikipedia dice: “Il BalFolk è un repertorio che comprende un insieme di danze di origine popolare, che vengono accompagnate dalla musica Folk o Neofolk.” La mia esperienza, da non ballerino e da “non” tante cose rispetto a questo mondo, è stata quella di ricordarmi come ci sia bisogno di riscoprire il concetto di popolo inteso come comunità, come ritorno al restituire al luogo che ti ospita e che accoglie ciò che hai da offrire. Questa serata mi ha ricordato l’importanza del tempo presente e dell’impermanenza del tempo: non mi ricordo di quasi nessuno di quella serata eppure in qualche modo mi ricordo di tutti. Mi ricordo alcune parole buone, alcuni sorrisi. Mi ricordo di un prete seduto vicino a me e di un bacio ad una mano (le due cose non collegate). Mi ricordo di tante persone felici, insieme.
Mi sono chiesto, prima di scrivere queste parole, perché quella serata avesse suscitato in me tante cose, perché ero riuscito a cogliere quello che ti ho scritto sopra? Non lo so quanto sia dipeso da me, dal mio stato d’essere, e quanto dal contesto. Probabilmente quello che ho visto era un esempio possibile di incarnazione di un ideale, di un modello a cui il mio io aspira, non lo so; ma come sarebbe bello poter alzare una mano, come durante i preparativi per una Giga quando manca una persona a completare il gruppo, ed essere visti. E non parlo direttamente di me in questo caso. Parlo della sensazione di vivere in un mondo che paradossalmente sta perdendo la capacità di creare connessioni, di chiedere e di ricevere risposte.
Forse basta solo il coraggio di alzare la mano…

A presto,
M.