2022-11-16

Siamo quello che facciamo?

Domande sull'essere e sul fare

Caro E.,

Una domanda mi frulla per la testa e non trova risposta (e forse non la troverà mai): è sufficiente quello che facciamo a definirci e a determinare la nostra esistenza? Noi siamo quello che facciamo? Siamo solo il risultato delle nostre azioni?

Un tempo credevo di sì. Pensavo che la scelta su che cosa fare fosse sufficiente a definire la mia esistenza nel mondo e che quindi scegliere la giusta azione mi rendesse una giusta persona, indipendentemente dalla motivazione, dallo stato d’animo o dalla mia profonda convinzione.

Oggi non ne sono più così sicuro. Non ne sono più sicuro perché tutto quel pensiero si basava su un riconoscimento dall'esterno, sul risultato di un giudizio. Perché l’azione, la manifestazione di un nostro comportamento è qualcosa di giudicabile: abbiamo un catalogo sterminato di azioni ortodosse, comuni, accettabili, desiderabili, attese, composte, adeguate, coerenti, concrete, utili e necessarie dalle quali permettiamo di essere giudicati e alle quali abbiamo allineato la nostra esistenza. Non ne sono più sicuro perché sono certo che LA cosa giusta non esiste.

Ma l’esistenza di un essere umano è giudicabile? La qualità del suo esistere è giudicabile o classificabile? Sì può giudicare l’uomo solo in base ad una sua azione? E se questa non è ortodossa? Se non è nell'insieme delle azioni accettate? Chi ha giudicato le azioni?

Le azioni sono nel piano del fare, i giudizi sono nel piano dell’essere. Possono essere paragonabili?

Paghi (fare) le tasse, allora sei (essere) un bravo cittadino. Rubi un gioiello, allora sei un ladro.

Non sono qui a discutere l’espressività della lingua, il concetto mi sembra abbastanza chiaro, ma quante volte mi capita di classificare una persona in base alle sue azioni? So benissimo che classificare è uno dei meccanismi di comprensione della nostra mente, un modo per organizzare informazioni e prendere decisioni e allora mi sono messo a pensare… cosa manca?

Perché riduciamo spesso tutto ad azioni?

Forse perché quello che non è azione di fatto non è rilevante nel rapporto con gli altri?

Potremmo essere un concentrato di informazione che vaga in questo mondo ed usa il corpo fisico come supporto per muoversi e l’azione come supporto per propagarsi. Tutto quello che non si propaga, che resta nella sorgente è di fatto ignoto, irrilevante per i possibili destinatari che non ne hanno conoscenza. Ma è sufficiente per sostenere che di fatto non esista? Siamo spinti a lasciare qualcosa di tangibile, a giustificare la nostra presenza, a renderla “degna”. Ma è necessario? Dobbiamo meritarci di esistere?

Mentre scrivo questo pensiero penso ad una serie Netflix intitolata “Tutto chiede salvezza” che mi ha profondamente turbato per come ha manifestato la presenza dell’essere senza farmi capire chiaramente cosa fosse. Perché ha mostrato quell'elemento, quel punto che io non riesco ad afferrare che trascende le azioni per le quali i personaggi sono costretti ad un TSO e che trascende anche le azioni che i personaggi intraprendono dentro l’ospedale, una presenza che non può essere ignorata ma che non è una azione.

O forse perché tutto è fare?

Da qui il dubbio che persiste sulla domanda iniziale. Esiste un momento in cui siamo ma non facciamo? Se così fosse allora potremmo essere definiti dalla somma delle nostre azioni, che comprendono cosa scegliamo di mangiare, che film guardare, come gettare l’immondizia, come ci rivolgiamo agli altri, come svolgiamo il nostro lavoro, quale lavoro scegliamo di fare e via discorrendo.

E pensare? Pensare è una azione? Il pensiero prima che si tramuti in reazione, prima ancora che venga espresso che cos'è? Dov'è nel tempo in cui ogni cosa è azione se non è accessibile ad un giudizio?

Da qui mi sembra ovvio il primo riferimento da cui questo ragionamento è partito: pensare è la condizione per essere. Ma com'è uno che pensa? Dove lo collochiamo in questo mondo in cui ognuno dovrebbe avere un posto che va bene a tutti, in cui cerchiamo di incasellare tutti i pezzi come un puzzle e ogni pezzo deve essere felice della posizione che ha?

Sono consapevole che stai leggendo righe molto confuse, ma non è casuale. Tu sai chi sei?

Sai chi sei al di fuori di quello che fai? Sai chi sei al di là delle persone a cui sei legato (figlio, nipote, cugino, amico)?

La prima cosa che potrebbe venirti in mente è di rispondere con il tuo nome, ma se ci pensi non è altro che la prima corazza che qualcuno ha scelto per te e ti ha messo addosso perché aveva bisogno di classificarti, di darti un posto, una etichetta. Il nostro primordiale senso di identità è legato a qualcosa che i nostri genitori ci hanno cucito addosso, è legato all'azione di qualcuno su di noi. Noi siamo il frutto di azione d’amore (o almeno dovrebbe essere così per tutti) che ci ha generato.

Non voglio sapere cosa stai pensando ora…

Possiamo guardare insieme “Il Re Leone” e trovare un giovane che nel suo essere ha il fare il Re per essere degno di suo padre. Possiamo guardare “Batman Begins” e scoprire un uomo che ha sacrificato il suo essere per essere qualificato dalle sue azioni, con l’obiettivo di salvare la città che i suoi genitori amavano e che lui si sente in dovere di amare a sua volta. Possiamo leggere “Il cavaliere inesistente” e scoprire che quando non c’è altro, quando l’armatura è vuota allora solo poter fare il cavaliere è rilevante e se questa possibilità svanisce, svanisce anche l’essere. Ma se dentro quella armatura non ci fosse stato il nulla, ma ci fosse stato un uomo, una volta tolta perché non poteva più fare il cavaliere cosa sarebbe rimasto? Non avrebbe potuto dissolversi, chi sarebbe rimasto? Chi?

Allora mi chiedo se questo dubbio non nasca dal semplice fatto che siamo strati su strati di armature, una per ogni nostro fare che ci siamo incollati come un essere e che abbiamo paura di togliere perché non sappiamo se tolta anche l’ultima non ci resta che svanire.

A presto,

M.