2023-01-25

Suggestioni Letterarie #4

La coscienza di Zeno - Italo Svevo

Caro E.,

ti scrivo queste parole nei giorni successivi ad una grande rabbia e frustrazione per cercare di insegnarmi qualcosa e guardarmi dall’esterno, forse anche un po’ perdonarmi. Poco tempo fa ho permesso a me stesso, cedendo all’ansia, di impedirmi di vivere un’esperienza che sarebbe stata senz’altro piacevole. Ho passato giorni nervosi, pieni di senso di colpa per qualcosa che poteva essere e non è stato. Ma il suo “non essere stato” è “stato” estremamente negativo specialmente per il sollievo inconscio che ho provato quando ho ceduto a colei che da tempo sostiene che è meglio rinunciare ad una gioia se per raggiungerla si deve affrontare un’incertezza.

Perché di questo si tratta: gradi di incertezza. Più sono i gradi di incertezza più si stringe la morsa dell’immobilismo, il mio becco non è ancora sempre abbastanza forte per rompere il guscio delle strutture che nel tempo mi sono creato e che oggi sono soffocanti rispetto alla mia forza interiore.

Spero che questo incipit sia stato abbastanza assurdo perché oggi voglio parlarti di incertezze e di come Zeno, con il suo racconto mi abbia ricordato quanto rilevante sia stata e sia tutt’ora per me la terapia. Vorrei riuscire a trasmetterti in queste righe che cos’è per me l’esperienza del colloquio e di come mi ha aiutato e mi aiuta a mettere al centro e nutrire la mia forza interiore per rompere definitivamente quel guscio e mostrare i miei modelli e le mie strutture. Non so se ci riuscirò completamente, ma cercherò di raccogliere quello che ho imparato proprio quando ho dovuto farne uso per superare un momento che era in contrasto con la promessa che mi sono fatto di essere sempre la migliore espressione di me stesso, di divorarmi la vita.

Se dovessi riassumerti la terapia in una parola userei “svelamento”. La mia terapia è stato innanzitutto svelarmi, mettermi sul tavolo così come sono e guardarmi. Potersi guardare non è scontato e avere un luogo sicuro in cui farlo è un tesoro prezioso perché mi ha permesso di abbassare le difese, di sbarazzarmi dei filtri con cui regolarmente vivevo e in certi casi ancora vivo il mondo fuori dallo studio. E nello svelarmi che inizio a scoprire quella verità che mi contraddistingue e che è un po’ un motivo ricorrente di queste mie lettere (in un modo o in un altro): perché scrivere è svelarsi, mettere nero su bianco una verità e farne i conti innanzitutto accettandola. Non potevo non entrare in qualche modo in risonanza con Zeno che come terapia scrive la sua vita, la sua realtà e il suo punto di vista. Scrivere è stato e continua ad essere il più grande compendio ai miei colloqui, tanto che non esiste un appuntamento da cui non nascano poesie o testi. Il colloquio genera in me un grande vuoto creativo e mi riallinea per trasformarlo in qualcosa che mi fa stare bene. Perché possiamo vedere solo ciò che in qualche modo portiamo davanti agli occhi, quello che rimane dietro resta sfocato, una presenza a volte indefinibile.

Il secondo grande strumento che la terapia ha depositato nella mia cassetta degli attrezzi non è una parola ma una frase: “In questo momento vai bene così”. Sono sei parole in grado di rasserenarmi e di rassicurarmi sul futuro perché intrinsecamente mi esortano a volermi bene oggi e mi confermano di avere tutti gli strumenti per essere diverso domani se lo vorrò: di essere in grado di attuare un cambiamento se un cambiamento è il mio desiderio. Quella frase mi ha sempre rassicurato sul fatto di essere la persona giusta per vivere la mia vita. Ci faccio ancora tante volte a pugni, sono sincero, arrabbiandomi con il passato e preoccupandomi del futuro ma soprattutto non perdonandomi l’oggi quando non è aderente alle mie aspettative.

Quella frase è stata fondamentale per comprendere la mia ansia, non ancora per sconfiggerla del tutto. Oggi riconosco quando vengo trascinato in quel tunnel emotivo fatto di proiezioni inarrestabili che trovano terreno fertile dove alberga l’incertezza: sono andato in terapia quando il mio motto di vita era “fai solo ciò che sai già di saper fare”. Oggi sono un po’ migliorato, oggi mi spingo oltre quella cortina che mi fa sentire solo e isolato, disposto anche a passare attraverso la sofferenza che quell’incertezza mi provoca per cercare di nutrire quel bisogno e quella spinta che ancora è soffocata da un guscio troppo stretto. Perché c’è ancora una cosa che la terapia non mi ha aiutato a superare e che in qualche modo mentre lo scrivo mi sembra l’origine oggettiva di tutto quello che è successo dopo, di tutto quello che è adesso: la paura di essere l’ultimo.

Vincere o perdere non mi è mai importato più di tanto, ma l’idea di essere l’ultimo ancora fa affiorare sensazioni opprimenti perché non è sempre vero che ultimo e perdente sono sinonimi: il perdente è colui che arriva dopo gli altri mentre l’ultimo è colui che gli altri aspettano. O forse, come direbbe chi di solito sta dall’altra parte del tavolo al colloquio, l’ultimo è colui che non si crede all’altezza di stare con gli altri, a prescindere dalla posizione in classifica.

Io non lo so da dove ha origine tutto questo, non so se dipenda dal fatto che ho visto poche persone chiedere aiuto, essere ultime o inesperte, affidarsi alla conoscenza altrui. Non so nemmeno se valga la pena cercare questo inizio o assumere il fatto che esiste come inizio e l’accettare il prezzo da pagare per fare ciò che non si conosce, la frustrazione di non essere capiti, l’incertezza e lo sforzo di gestire tutto questo come l’inizio della fine, perché oggi mostrare l’ansia è il miglior modo per sentirmi ultimo.

E allora in questo flusso di coscienza posso ritornare al mio incipit, a quella esperienza a cui ho preferito rinunciare perché ha vinto (paradossale usare questa parola) il me che si sente ultimo, che ha permesso all’ansia di insinuarsi lungo i miei nervi e immobilizzarmi.

Mi sono serviti giorni per ricordami di volermi bene, per accettare che in certe cose devo accettare di fare fatica anche quando vinco io e che va bene se a volte vince la mia sconfitta. Va bene essere ultimi e gareggiare lo stesso. Mi sono serviti un po’ di chilometri in piscina per lasciare all’acqua tutta la rabbia e la frustrazione e ritornare a me, al mio percorso e al mio oggi. Mi sono serviti giorni per ricordarmi che posso leggere le cose in un altro modo e trasformare una sconfitta in uno stop e semplicemente ripartire, come con una virata.

Oggi mi sono ricordato che posso trasformare l’incertezza in rischio, il rischio in sfida, la sfida in gioco, il gioco in divertimento. La terapia mi ha insegnato che se lo voglio posso paradossalmente trasformare l’ansia in divertimento.

Ho capito ancora di più quanti strumenti mi ha dato la terapia e quanto rappresenti un punto di riferimento per esplorare il mio svelarmi, in uno studio dover persino l’ansia non ha coraggio di entrare.

Direi che può bastare, cosa dici?

Più che una lettera questo sembra un viaggio, spero di non averti annoiato e che tu sia rimasto almeno un po’ confuso, con qualche domanda da fare. Non so dove sarò quando leggerai questi pensieri, ma mi troverai lì.

A presto,

M.