Caro E.,
è già qualche anno che in questi giorni mi prendo uno spazio per pensare e osservare. Non sono un amante delle ricorrenze e degli “anniversari” perché li ho sempre ritenuti la scusa per fregarsene durante tutti gli altri giorni. Ma questo è diverso, questa giornata mi penetra e mi commuove. Tutto ciò che critico nelle altre ricorrenze in questa in qualche modo la esalta, la sensazione che per molti sia già solo un giorno mi provoca un attrito che non riesco ad ignorare.
Vorrei riprendere una cosa che ti ho scritto il 31 dicembre, lasciata lì in una riga:
“Certo è che la nostra esperienza potrebbe non essere sufficiente e quindi la storia di altri potrebbe essere complementare alla nostra prossima decisione (per evitare di farci fare strada in più), da cui si giustifica la storia.”
Se stessimo conversando ora mi chiederesti quale dovrebbe essere la prossima decisione in questo periodo di ricordo in cui rinnoviamo la storia di altri per vivere il nostro presente. La risposta che ti darei è che la decisione è quella di scegliere di non dimenticarsi della sofferenza degli esseri umani.
Sarai senz’altro consapevole della frenesia della vita, dei suoi ritmi e delle sue regole imposte che troppo pochi provano a violare. Sicuramente avrai visto me e la mamma presi dalle cose da fare, intrappolati in una routine di cui sappiamo solo lamentarci immersa in un substrato di benessere che oramai è invisibile. Non ci fermiamo più pensare e osservare che siamo esseri umani, che abbiamo bisogno di coltivare le emozioni, di prenderci del tempo per volerci bene e dedicarci a noi stessi. Perdiamo a volte di vista che siamo persone in mezzo a persone: abbiamo disumanizzato le vicende umane solo perché lontane, ci indigniamo un po’ ma il ritmo ci chiama e allora accantoniamo e poi dimentichiamo o rimuoviamo, passiamo oltre.
Allora questa giornata è un salvagente a cui aggrapparci prima di affogare nel mare dell’egocentrismo e dei “sacrifici necessari” o di qualunque altro slogan che nella sua formula non prevede la variabile umana. Perché è questo che a me ha sempre insegnato l’olocausto: la capacità dell’uomo di dimenticarsi di essere tale. Non solo i deportati nei campi di concentramento sono stati privati della loro umanità, ma hanno scelto di disumanizzarsi anche tutti i carnefici di quei luoghi di inferno, spinti da un fanatismo che ha costruito un nemico al di fuori di se stesso e ha deciso di eliminarlo, nascondendo la sua umanità.
Tutte quelle persone hanno scelto di non vedere più l’umano e la sua sofferenza e hanno smesso di essere umani a loro volta: perché non si può arrivare a tanto. Ecco che allora la storia e il ricordo come scrigno di emozioni in grado di evocare sensazioni diventa il più grande monito per chi continuerà a percorrere la strada della vita in futuro. Non è sufficiente leggere numeri, date e metodi ma è necessario riappropriarsi dello strato emozionale, percepire in qualche modo la sofferenza dell’essere umano.
Avrei potuto leggere altri testi quest’anno ma, come l’anno scorso con il tema della dignità, avrei ragionato su che cosa scriverti bypassando la mia emotività o quantomeno piegandola al messaggio. Invece per quest’anno volevo che il messaggio arrivasse spoglio da ogni struttura e da ogni preconcetto e per cercare quel messaggio ho deciso di affidarmi alle immagini: trovare un immagine da guardare almeno una volta giorno in grado di farmi precipitare al mio stesso interno. Quando ho trovato l’immagine di Istvan Reiner sono sprofondato e sprofondo tutt’ora mentre ti scrivo queste parole con i suoi occhi puntati addosso e quel sorriso che quasi lacera il contesto del campo di concentramento. In quell’immagine vive l’umanità dimenticata, sta tutta racchiusa lì e nessuno l’ha vista quando ancora non era un ricordo.
Questa giornata della memoria mi ha ricordato di non dimenticare l’umano che abbiamo di fronte, innanzitutto davanti allo specchio, che soffre o può far soffrire e che la nostra vita così agiata deve ritornare a quella umanità, a quel prendersi cura di ciò che amiamo e non seguire gli “ordini” che rendono tutto materiale, ogni cosa un problema con la sua soluzione.
Nessun essere umano avrebbe accettato di fare parte di quello che è stato e mentre ti scrivo non è cessata l’auto-disumanizzazione che prepara il terreno alla guerra e alla violenza: solo chi si è dimenticato della sofferenza dell’essere umano può provocarne. Gli altri no.
A presto,
M.