2023-06-25

Suggestioni Letterarie #7

La gioia di scrivere - Wislawa Szymborska

Caro E.,

ho da poco finito di leggere le poesie raccolte in “La gioia di scrivere” di Wislawa Szymborska, una poetessa che mi piace proprio tanto e che potrei definire come il mio colpo di fulmine in questo strano mondo creativo. “Basta così” è stato il primo libro di poesie che ho letto e che in qualche modo ha impresso quel metodo comunicativo da qualche parte dentro di me. Ti ho già scritto e ho già riflettuto in passato sul perché io mi sia avvicinato alla poesia. Tale riflessione, rileggendola, la trovo ancora coerente e vicina a ciò che provo nei confronti di questo mezzo ma richiede di essere estesa, di inglobare altri aspetti per cercare di rispondere alla domanda suggerita da questa ultima raccolta letta: qual è la mia gioia di scrivere?

Così, su due piedi, pensavo che questa domanda e la domanda “perché scrivi?” fossero la stessa cosa ma mi sbagliavo. Il punto focale è che io scrivo perché scrivere mi dà gioia e da questa gioia deriva la ricerca di un mezzo all’interno del mondo della scrittura con cui esprimere questo sentimento. Sono felice di scrivere anche quando scrivo cose che mi rendono triste, arrabbiato o frustrato: quando mi sono accorto di questo ho capito che dovevo andare a cercare quel livello sommerso, quella gioia che permette di scrivere anche della tristezza.

E allora ho preso il mio bel foglio bianco e al centro, bello in grande, ho scritto: perché scrivere mi dà gioia?

Scrivere, l’atto di digitare dei tasti o far scorrere una penna è un’azione consapevole, è un “fare”, un pensiero che si concretizza che diventa tangibile, diventa opera. Scrivere è il mio atto rivelatorio e in quanto tale rappresenta di per sé un esserci nel tempo, nel mondo e nel presente. In quanto azione è il compimento di un pensiero e ognuno di noi (credo e spero) dovrebbe essere riconoscente a se stesso di aver compiuto un'azione mossa da un pensiero (sperando sia fatta per il bene).

Ma scrivere è anche immersione, accettare di mostrarmi a me stesso al di fuori di me. Ho compreso che quando scrivo mi incontro continuamente in un dialogo che nasce nelle profondità ma che ha bisogno di essere fatto riemergere per poter essere consumato, per diventare autentico.

Ma allora perché non scrivo ogni giorno? Perché non faccio la cronaca della mia vita?

Perché in queste immersioni ho visto che la mia luce mette a fuoco tutti i pensieri irrisolti: la mia gioia è illuminare tutte le parti irrisolte di me, scovarle, interrogarle e dar loro lo spazio di esprimersi. Scrivere è diventato la costruzione dello spazio in cui quel pezzo di me vive e prospera perché è un me irrisolto, in evoluzione. Costruendo questi spazi permetto a me stesso di coesistere con le mie contraddizioni, i miei pensieri contrastanti: permetto anche alla fantasia (o alla follia) di dire la sua senza la necessità di far convergere ogni cosa ad un tutto coerente. In ogni cosa che scrivo faccio un’istantanea ad un me stesso da cui posso tornare a conversare, al quale posso muovere una critica o un complimento, al quale posso far evolvere il pensiero. Scrivere le mie parti irrisolte mi permette di essere eternamente presente a un me stesso che posso incontrare ogni volta ce ne sia l’occasione o la necessità.

Allora, se fossi un albero (per usare una metafora che non usa nessuno), tutte queste “parti” sarebbero i miei rami che crescono, si muovono ed esplorano lo spazio, attaccati ad un tronco che credo di non aver mai ancora scoperto ma che se continuo a percorrere i rami in senso contrario forse un giorno lo incontrerò e forse scoprirò come tante cose diverse tra loro possano essere alimentate da un’origine che scava nel profondo per nutrire ogni sua foglia. Se così non fosse, sarà stato un bel viaggio ugualmente tra le fronde della mia vita.

Ecco che i silenzi sono i periodi in cui la mia luce non riesce a superare la cortina di tutto quello che già è e che in qualche modo è consolidato, come un muro di cemento. Quando non riesco a mettere a fuoco una parte irrisolta di me anche il desiderio di scrivere viene meno, perché verrebbe meno la conversazione, il dialogo con me stesso.

Come potrei concludere allora questo testo?

Forse dicendo che che la mia gioia di scrivere è la consapevolezza che non c’è una conclusione, che questo dialogo con me stesso (sia esso un poesia, una lettera o un telegramma) può durare in eterno perché credo che in noi alberghi la complessità dell’universo. Ti auguro di aver sempre cura di dialogare con i te stesso irrisolti, di confrontarti sempre con ciò che ancora non sai e di non rinnegare tutto quello che sei ma di costruirti degli spazi in cui custodirti.

A presto, M.