2023-06-30

Elogio delle cose che terminano

Le cose e la loro fine

Caro E.,

stavo bagnando il prato qualche sera fa e mi sono preso la libertà e l’ardore di lasciare la mia mente libera di vagare nei meandri delle sue pieghe in cerca di qualcosa a cui pensare. Così, tra un melograno e un ulivo mi sono ritrovato a ragionare sui cambiamenti e sulle cose che finiscono. Mi sono messo ad osservare mentalmente le situazioni che vivo intorno a me o che ho vissuto nel passato e, non credo ti sorprenderà la cosa, vedo tanta avversione al cambiamento e tanta paura delle cose che finiscono.

Ma perché c’è tutta questa paura? Le frasi fatte della serie “la vita può essere bella solo perché ha una fine” le conosco io, le conosci tu e le conosce chiunque abbia aperto un profilo di Instagram (nonostante ogni buon proposito fatto): quindi perché, nonostante queste conquiste mentali mi sembra di percepire così tanta avversione al cambiamento e paura della fine?

Ci ho pensato su e probabilmente il ragionamento che farò sarà una cosa banale e la risposta sarà arcinota a chiunque studi sociologia o psicologia ma visto che sono arrivato fin qui tanto vale che faccia un po’ di esercizio di scrittura e argomentazione.

La mia tesi è che il problema in realtà sia unico in quanto il cambiamento rappresenta un passaggio di stato in qualche modo e quindi la terminazione di qualcosa che è per la nascita di qualcosa che sarà. Ergo, credo che tutto si riduca, in fondo, alla paura delle cose che finiscono. A sua volta ho concluso che la paura delle cose che finiscono è direttamente proporzionale al trauma dell’evento terminante. Mi spiego: quando il momento di fine rappresenta un trauma io ho l’impressione che tutta l’esperienza venga fatta collassare il quel momento, tutta la storia di quella cosa venga assorbita dal trauma della sua fine. Quindi, più è traumatica la fine più forza assorbente ha nei confronti della storia (una specie di buco nero dell’esperienza) e più tempo serve per far riemergere tutto il suo contenuto che di fatto ne determina il valore. Provo a farti un esempio che magari mi capisci di più. Assumiamo che tu stia leggendo il libro più bello che tu abbia mai letto e mentre lo leggi provi tutta una serie di sensazioni, emozioni e suggestioni che in qualche modo sono il principio di un cambiamento. Ovviamente finché leggi stai vivendo la transizione perché sei focalizzato sul momento presente ma man mano che le pagine da leggere diminuiscono vivi un mix tra “non vedo l’ora di vedere come va a finire” e un “E se il finale non mi piace? E poi cosa leggerò?”. Ad un certo punto il libro effettivamente finirà: la sua storia è conclusa, non ha più niente da raccontare. Questo di fatto rappresenta un trauma perché non ci sarà più quel momento da vivere con quel libro, oramai la tua transizione è avvenuta, il tuo cambiamento è completo. Ora, il trauma della fine di un libro è estremamente piccolo e quindi appena finito un libro subito sei in grado di ripercorrere ciò che la tua mente ha metabolizzato tenendo vivo il valore di quel libro: hai abbracciato quel cambiamento e il nuovo te è frutto di quella lettura, non della sua fine. Questo vale indipendentemente dalla qualità della sua fine: sarà effettivamente il libro più bello che avrai mai letto o sarà stato un flop. In ogni caso tu non sei più lo stesso.

Ma cosa succede con la morte? Che potere ha quell’evento di fine traumatico di assorbire la transizione che è stata il tempo passato con la persona che è venuta a mancare? Quanto tempo ci serve per ritornare ad essere quelle persone frutto di quella transizione e non di quell’evento traumatico?

Magari sto vaneggiando, non lo escludo, ma mi chiedo: è stata veramente un’idea intelligente quella di creare l’idea del per sempre? Vivere un’esperienza, sapendo che potrebbe finire, sperando o confidando che costituisca un “per sempre” è veramente la scelta migliore per vivere a pieno quell’esperienza?

Anche perché, parliamoci chiaro, siamo consapevoli che la (quasi) totalità delle cose deve finire e in alcune di queste circostanze siamo anche bravi a comportarci di conseguenza: quando andiamo in vacanza, ad esempio, sapendo che finirà cerchiamo di vivercela al massimo, cercando di incamerare il più alto numero di momento memorabili e accentando che un giorno arriverà il momento del rientro.

Allora ti voglio lasciare con una provocazione: cosa succederebbe se vivessimo ogni cosa sapendo che deve finire? O meglio ancora, cosa succederebbe se vivessimo ogni cosa sapendo che è destinata a cambiare, senza possibilità di un per sempre?

Mi piace pensare di essere in costante evoluzione perché significherebbe per me essere vivo, essere in transizione perpetua, non accettare la stasi della condizione attuale. Non so in realtà quanto ci sto riuscendo, quanto coraggio serva per andare veramente fino in fondo al cambiamento accettando non solo di vivere i traumi della fine (o del passaggio di stato) ma di rappresentare un trauma della fine per qualcun’ altro. Però continuo a pensare che ci sto almeno provando.

Ti auguro di vivere accentando il cambiamento: quello degli altri e il tuo. Non rinunciare a cambiare per paura di quello che termina perché in qualche modo c’è qualcosa dentro che ci spinge per cercare di essere sempre migliori, di farci trovare il meglio per noi. Non fermarti al primo “per sempre” che incontri, prova a guardare dove porta la strada del “e se cambiasse?”.

Ti auguro anche di incontrare presto un libro che si intitola “L’anatra, la morte e il tulipano” che mi ricorda sempre come può essere di valore una cosa in compagnia della sua fine.

A presto, M.