Caro E.,
strana cosa l'Universo: quella totalità di energia che ti conduce per sentieri di cui a volte vedi la traccia solo se ti volti indietro. Proprio ieri mi ha portato questo libro, "Quando non morivo" di Mariangela Gualtieri, scelto quasi casualmente nella nostra libreria. Anzi, ad essere sincero, scelto perché avevo bisogno di qualcosa di breve, di qualcosa che mi desse l'impressione di poter essere finito in poco tempo. Il perché di questo bisogno forse mi sarà chiaro più avanti.
Non ho mai scritto le mie suggestioni rispetto ad un libro di poesie, non ne ho mai sentito l'esigenza, ma questo libro sembra mi sia stato messo tra le mani in questo preciso momento, in questo preciso giorno. Non ti descriverò molte cose, non credo che troverei le parole giuste. Forse solo la poesia può veramente spiegare. Ce ne sono due che sono andate particolarmente a fondo in questa raccolta e voglio semplicemente condividerle con te. Il resto lo lascio fare all'Universo.
Io non chiedo per voi l'eterna pace
non quel sonno infinito delle pietre
io non prego per la perpetua luce
in un tetro di tenebre ghiacciate.
[...]
Siate bellissimi, morti nostri. Diventate voi
tutta la meraviglia di quando alziamo la faccia
nell'aperta notte e quasi non reggiamo
quell'impero enigmatico di stelle,
tutta l'eleganza armonica del cielo.
Siate voi.
Non prego per voi. Prego voi.
Questo è un estratto del "Requiem" che chiude il libro. Non ti dico la leggerezza nel respiro che mi hanno messo questi versi, in questi giorni in cui i paesi si fanno più silenziosi, più cupi. Giorni in cui crediamo di poter ancora fare qualcosa per i morti. Giorni in cui c'è chi prega Dio in un mondo che perfino lui sembra aver abbandonato.
Voce appena dell'inviata
Io mangiavo il panino
e nessun morto mi toglieva l'appetito,
nessun morto mi disturbava il sonno.
[...]
[...]
Non so perché. Io non me lo spiego.
Nessun bambino piccolo, con sasso in
mano, nessun bambino con sasso fucilato
affamato bambino morto o violato.
Io voglio un dolore vero,
voglio un vero dispiacere e dolore,
voglio che dal dolore vero nasca
un atto vero, una vera pietà, una giusta ira,
un pianto vero, un aiuto vero,
un fare e dire vero, veritiero. Come si fa?
Ho pensato se ci fosse altro da dire su questi versi e probabilmente se tu la leggessi ora, mentre imperversa l'ennesima tragedia per mano di uomo, l'ennesima tragedia desiderata dalla mente dell'uomo, non ce ne sarebbe bisogno. Ma non lo so cosa racconterà la storia di questi anni di guerre: dell'Ucraina e della Palestina, della Russia e di Israele (e non me ne vogliano tutti gli altri impegnati ad ammazzarsi). Allora ti racconto come questi versi mi abbiamo suscitato il dubbio che ormai anche l'indignazione non sia più uno strumento efficace, che il nostro organismo mentale e psicologico sia immune all'indignazione, che resta di fatto lo smacchiatore della coscienza. Resta come forza che magari ci fa prendere una posizione, ci fa esporre in qualche modo ma, come dice la poesia, non ci toglie più l'appetito e il sonno. Non è più abbastanza per farci alzare e cambiare. Cambiare noi stessi e poi cambiare ciò che ci sta intorno. Forse non per tutti, ma per tante delle persone che vedo intono a me. Per me. Perché questa è una riflessione che faccio innanzitutto rivolto a me stesso, alle mie azioni, alle mie scelte e alle mie consapevolezze e come in un circolo vizioso mi chiedo se anche queste righe non siano semplicemente il frutto di quella indignazione. Per sistemare il fastidio generato dalla contrapposizione tra una realtà locale (quella della mia casa, del mio paese e della mia comunità) e una consapevolezza globale di persone che soffrono, di bambini come te morti sotto le bombe e di padri che stringono corpi senza anima. Scritte dopo cena, al caldo del mio studio, prima di andare a letto. Non so se mi toglieranno il sonno questi versi. Da una parte lo spero. Spero di riuscire ad interrogarmi su come condurre la mia vita, su come dovrebbe influenzare la mia quotidianità quel dolore vero, se ci fosse.
Ma forse sono pensieri che non hanno risposta perché senza quella spinta emotiva ogni riflessione è puramente razionale, politica, incapace di sbilanciarsi, in balia dei "se" e dei "ma", viziata dalla condizione stabile e privilegiata che vivo in questo momento.
Allora più di tutto quella domanda finale resta nella mia testa e rimbalza tra le pareti del mio stomaco e del mio cervello: "Come si fa?" Come faccio a trasmetterti la voglia di pace? Quel rifiuto all'odio ad ogni costo? Come faccio a trasmetterti il valore di una vita preservata? Come faccio a convincerti che non deve esserci una ragione e un torto, un vincitore e uno sconfitto? Come faccio a tenere i tuoi occhi sul bello senza nasconderti le atrocità che può compiere l'uomo? Come faccio a spiegarti che il potere porta alla guerra? Come faccio a spiegarti che interrompere il ciclo della violenza, anche se sei stato l'ultimo ad essere colpito, è la vittoria? Come faccio a spiegarti che è difficile sacrificare gli interessi personali all'altare della pace?
Tu stai crescendo e il tuo mondo è sempre meno dentro le mura di casa nostra, con la televisione spenta, fatto d'amore, incoraggiamento e protezione. Al momento siamo fortunati, non viviamo sotto le bombe fisiche. Ma aprire la porta e farti uscire non mi lascia lo stesso tranquillo.
A presto,
M.