Caro E.,
Sono passati 6 anni da quella notte in cui per la prima volta, seppur in modo violento, la mia anima è entrata veramente in comunicazione con me: “mi stai soffocando”. Un messaggio chiaro. Così quella notte si è liberata nel mio terrore, nella mia ansia, affinché io iniziassi ad ascoltarla, per svuotarmi a poco a poco di tutto ciò che ero e trasformarmi in un involucro nuovo, pronto a riempirmi di una nuova vita e una nuova via.
Sono passati 6 anni, in mezzo è capitato veramente di tutto. Ripenso e scrivo di quel giorno, mentre tu dormi qui vicino me. Ero impaurito e spaventato (specialmente quella notte); credevo di essermi rotto ed essere diventato improvvisamente sbagliato. Mi sentivo in colpa e ingiustificato a stare così. Non avevo capito che ero all'inizio del travaglio, che mi stavo partorendo altro da ciò ero stato. La natura, saggia, per la più grande gioia che è dare la vita ha interposto lo sforzo del parto, la fatica di venire e far venire alla luce cosicché poi la gioia sia piena.
Ora sono meno impaurito, ti guardo con indosso il tuo pigiama di Spider man riposare sereno. Mi sento però più solo. Credo di essere venuto al mondo, nuovo, e di dover ora imparare ad esprimere la mia lingua. Non ho ancora trovato la forza di rompere quella “regola” che mi tiene legato, come un cordone ombelicale, a chi sono stato. Vivo una sensazione strana nel sentirmi in qualche modo responsabile delle mie stesse catene, provando a spezzarle ogni notte sapendo (e forse in parte sperando) che non si rompano mai, che continuino a costituire un alibi.
Forse ancora non mi sono conosciuto: vivo l’ebrezza di poter essere tutto, di poter essere al di là del ragionevole, standard e uniforme e vivo la paura del vuoto, di quel salto, di quel taglio, di quella morte. Se è vero che a ogni azione ne corrisponde una uguale e contraria allora per ogni morte c’è una vita e per ogni vita c’è una morte. Forse sono venuto al mondo 6 anni fa, ma non sono ancora morto in quella notte per permettermi di essere pienamente vivo oggi. Pensieri forse un po’ confusi questi, figlio mio, ma il tuo riposo mi conforta e il tuo respiro è il ritmo per le mie dita.
Tutto sta nel trovare e scoprire il coraggio di percorrere la propria via o vita, o il coraggio di rinascere, di essere vivo ogni istante, nascere e morire in ogni istante (non so quale mi suona meglio, le lascio tutte).
In questa frase, in ogni caso, convivono il paradiso e l’inferno. Il paradiso è abitato dalla consapevolezza che è “sufficiente” connettersi con la propria anima, con il proprio Essere profondo e onnisciente, per intraprendere quel percorso e avere fiducia del fatto che quell'anima che ci abita si prenderà cura di noi e ci aiuterà ad accettare ciò che è fuori di noi. La puoi chiamare anima, spirito o in qualunque altro modo tu voglia: è quella cosa che ci chiama a splendere ogni giorno, a rifiutare di accontentarsi nel senso di rinuncia ma a perseverare in quella ricerca di una forma che ci eleva ad Esseri felici. In quella forma, ciò che oggi chiamiamo rinuncia diventa “semplicemente” una scelta nel nostro percorso. Magico paradiso.
E per ogni Eden esiste il suo inferno e questo inferno è fatto di strappi e di tempo. Raggiungere la nostra forma richiede di accettare di strappare e noi, io, nel mio corpo, certi strappi non riesco a farli. Sono spinto e “attratto” costantemente dal senso di responsabilità a continuare ad essere fedele a chi ero in precedenza (da ieri alla mia venuta al mondo) nella convinzione di tutelare me e chi mi sta intorno (quella specie di cordone ombelicale con me stesso). Mi dico che ci sarà il tempo e il modo, attendo le condizioni favorevoli perché ora non è il momento. Aspetto che qualcosa al di fuori di me mi permetta di cambiare dentro. Questo inferno ho scelto di chiamarlo “Illusione della morte”: io sono già morto ma ancora non lo so. Vivo considerando il tempo che credo mi resti davanti: confido che il tempo sia ancora molto e che sia sufficiente per fare poi ciò che penso vorrei fare ora. Cerco di non morire credendo che equivalga a vivere.
In una puntata di un podcast, che cerca proprio di esplorare il tabù della morte, un filosofo (Massimo Donà) disse: noi non costruiamo il nostro futuro ma il nostro passato.
Credo di essere cresciuto con l’idea che rifiutare il futuro per vivere il presente equivalga ad una vita senza prospettive e senza obiettivi. Sono cresciuto credendo che “vivi il qui ed ora” fosse un rischio per domani e così mi ritrovo anche io a pianificare una vita futura che in realtà non so come sarà, che imprigiona il mio presente e che forse non vivrò mai. Perché l’unica costante della vita, disse Buddha, è che la vita cambia continuamente.
Allora perché non fare di ogni presente l’inizio di un futuro da scoprire, di una via da seguire? Riempire ogni giorno di inizi, iniziare costantemente qualcosa: maledetto inferno. Imparare a morire. Questa è una frase che mi è rimasta impressa e che sta tornando in queste mie frasi. C’è una parte di me che non è ancora morta per lasciare vivere l’altra, ma continua il suo influsso di “antivita”. Misterioso ciò che è in grado di abitarci dentro.
Nei giorni che hanno preceduto questo particolare anniversario della mia vita è tornata l’ansia, come una strana ricorrenza, a parlarmi della mia anima: a dirmi che ancora non sono arrivato, che ancora non ho imboccato quella via, non ho ancora indossato i piedi giusti per il mio percorso. Poi è andata via, mi ha concesso solitudine e silenzio, ma in quel silenzio mi ha chiesto ascolto.
Scrivo allora alla tua queste parole (e forse un po’ anche alla mia): non ti arrendere con lui, non ti arrendere con me.
Stasera, mentre scriviamo insieme, io con le dita, tu cullando il mio tempo, sono sereno. Vivo un tumulto di dee e di progetti che sbattono all'impazzata tra le pareti del mio corpo. Ma è una serata di quiete, una notte di luce tutt'intorno. Mi sono fermato per lasciarti questo messaggio prima di “ripartire”.
Io ho compreso di essere ancora in cammino, ancora alla ricerca di quella via, di quelli strappi e del coraggio per farli. Ho compreso che la scrittura è stata e continuerà ad essere una delle migliori terapie. Ma, come ogni terapia che si rispetti, non è la “cura” e non è la “soluzione”: serve solo a trovare la via. Finché non metto i piedi in quella via, finché non farò quel passo, finché non dirò quelle parole e non partirò per quel “viaggio”, queste parole resteranno il racconto di un passato mai esistito, di un presente mai vissuto, di un futuro mai avverato: un modo, forse efficace forse no, di sublimare la vita.
Non so “dove” e “come” sarò quando tu poserai gli occhi su questa lettera. Spero non siano occhi troppo umani, spero non siano delusi da come è stata la tua vita fino a questo momento. Ti auguro di aver vissuto tanti inizi, di non avermi tenuto troppo in considerazione e di avermi vissuto come un luogo a cui poter sempre tornare ma non un luogo in cui dover restare. E ancora di più lo penso in questa serata, in cui ti sei addormentato tra le mie braccia che poi hai lasciato per affrontare la tua notte da solo. Affronti già la notte da solo, i tuoi sogni e i tuoi incubi: sei già grande, anche se non lo sai. Spero tu possa essere sempre libero come la notte.
Ora, prima di terminare rileggo queste poche righe, probabilmente confuse e senza un vero inizio e una vera fine (ma forse è proprio giusto così): mi torna in mente quel manifesto, che con tanta cura e speranza avevo scritto. Sembra quasi che la mia anima me lo riporti alla mente, per edificare un ponte tra ciò che sono dentro e ciò che si vede fuori. Sono ritornato fragile in questi giorni, un esoscheletro che ha paura di accartocciarsi su stesso, ma pieno di desiderio e di idee: un involucro di nuovo da riempire.
A presto,
M.